
Di Mauro Di Ruvo
Un mondo al contrario è la vista di chi seduto all’angolo della sua stanza getta l’occhio per un attimo all’orizzonte, fuori dalla sua finestra, e introietta le speranze che il tempo laggiù possa cambiare. Poi chiude in un altro attimo gli occhi, e pensa che le parole ingannano più delle immagini. Quindi sogna.
L’arte è nata da questo momento cruciale nell’intimo dell’uomo. È sopravvissuta per secoli ed è stata trasferita sino ad oggi sul carro della tradizione (il nomos). La tradizione è nel frattempo divenuta però il suo peggiore male esistenziale, il suo morbo paterno, il suo Edipo Re. Da nomos è divenuta il suo nosos.
La Grande Guerra ha già cambiato una volta il visus dell’Arte, inferendogli delle cicatrici che non si sono più rischiarate in superficie, e l’hanno invasa interiormente nel suo intento paradigmatico.
Un’altra guerra è invece quella che ha cambiato il suo corpo da organico a disorganico, sconnesso nei suoi arti comunicativi. Ed è la Guerra Fredda, una guerra che non ha mai smesso di calpestare il suolo occidentale più di quello orientale. Anzi sta portando proprio ora nel nostro continente la “civiltà del gelo”.
C’è tuttavia sempre il rischio in questa civiltà che ritorni a emergere la nostalgia di massa verso un passato pregno di ricordi distorti e di ideali effimeri. Ed è infatti quanto risulta dalla produzione sociale delle nostre democrazie.
Qualcun altro invece con un briciolo di sana perversione quasi raffaellesca pervenutagli dall’Arte, intravede nel groviglio massmediale dell’attualità un esito diverso, concesso forse da una autentica “demiurgia platonica”. Vede la pittura come lettura ribaltata del presente. Una pittura che sia una fuga mundi, una fuga dall’universo.
E allora che si veda il pennello di Antonio Telesca nella telecamera a rovescio che compone sospeso letteralmente dalla terra la sua opera sulla vanitas temporis, incorniciata dai temi caldi di una esotica “estate”, non deve meravigliarci che ritorni l’arte su quel suolo lunare da cui l’Ariosto vedeva la follia dell’umane genti.

L’opera che l’acheruntino Telesca, nella sua amata Forenza, mostra emblematizzata in questa posa che noi tutti definiremmo “folle” oltre che propriamente acrobatica, è in realtà il più genuino e verace timbro della sua demiurgia. Una dimensione che ha attraversato interamente la sua vita da oltre settant’anni, sin da quando fondò la sua prima stazione radio “Radio New Sound” nel 1978 nella natale Acerenza.
La sua vena trapezista che lo ha visto protagonista di numerosi agoni sportivi regionali e nazionali durante la fine degli anni Novanta, si mescola dentro la sfera artigiana che mai è lontana da quella sportiva del demiurgo di cui parlava il Fedone del filosofo ateniese.
È stato omesso, e continua finora a torto ad esserci, nella stragrande pletora delle trattazioni storico-artistiche, la figura dell’artista che travalica la moda esecutiva dei generi. Cioè a dire si è voluta una certa costanza e coerenza nella disamina degli artisti maggiori e minori delle varie branche dell’Arte, che si è scoperta tradotta quasi in scelta di forza censoria per quelle eccezioni che non discernessero nella pratica il figurativo dal performativo. Una scelta che si è resa blanda ultimamente con l’apertura della critica alle nuove tendenze “pragmatiche” di questo settore ma che rimane affetta comunque di una improba miopia sulla serietà della performatività artistica.
Nel caso di Antonio Telesca sarebbe del tutto imprenscindibile non ignorare il senso profondamente sportivo, dinamico, materico, vitalistico, che lo rende altamente sperimentativo nei genera di cui si contamina la propria opera, aspetto cui dottrina critica è fortemente vocata a osservare, e che origina quel processo inatteso per chi lo veda sospeso a un trapezio mentre compone su tela, di conciliazione con la purezza ideale.

L’aspirazione all’idea in Antonio Telesca è del tutto “controversa”, perché essa controbilancia sia il metodo redazionale dello spazio figurativo sia il carisma direzionale del tempo in cui sta eseguendo. La materia e il soggetto sono reciprocamente in palingenesi si direbbe, congenerati e cognati.
La torsione dello spazio che Telesca rivolge dalla sua mente alla sua tela, è anche valida anche quando opera stante, ma in questo caso il soggetto si carica diversamente nella rappresentazione e muta la sua raffigurazione ideografica.
