Dopo la fama, la vergogna.
Dopo gli applausi, la prigione.
Gli ultimi giorni della vita di Oscar Wilde.
Rupert Everett ha covato per ben dieci anni l’ambizioso progetto di portare sul grande schermo questa storia. Non ha accettato compromessi o restrizioni, tanto da arrivare a decidere di dirigerlo e interpretarlo lui stesso.
Qualcuno potrebbe addittarlo come megalomane, ma il suo è un atto d’amore, necessario.
Il primo “incontro” col celebre autore de “Il Ritratto di Dorian Grey” avvenne in tenera età: la mamma di Rupert gli leggeva spesso la triste favola de “Il Principe Felice”.
Poi nel 1999 giunse il ruolo di Lord Arthur Goring nel film “UN MARITO IDEALE” e nel 2002 vestì i panni di Algy ne “L’IMPORTANZA DI CHIAMARSI ERNEST”.
E proprio dopo questi ruoli che nacque in lui l’idea di scrivere la sceneggiatura di questo film, concentrandosi proprio sugli ultimi anni di vita di Oscar Wilde, successivi agli anni di prigionia e di lavori forzati per “sodomia e grave indecenza”.
È una vera sorpresa che Rupert Everett sia riuscito nel realizzare il suo sogno.
Ci restituisce l’immagine di un Oscar Wilde mai così umano e imperfetto.
Appesantito da protesi facciali ( le stesse che usò nel 2012 a teatro nella piece teatrale “The Judas Kiss” di David Hare, incentrata proprio sull’arresto dello scrittore e sulla sua vita a Napoli dopo la scarcerazione) Everett non ci risparmia nulla e ci mostra un ritratto mai così decadente ( termine da leggere nella sua accezione più negativa ).
Ma l’amore che il regista ha nei confronti di Wilde illumina ogni scena, anche quelle più patetiche.
Per raccontarci la fine del caro poeta, Everett sceglie la via della metafora.
Wilde è quella statua del principe felice di cui egli racconta la fine a due giovani ragazzi di strada.
Priva dei suoi ornamenti e delle sue ricchezze che una rondine ha donato a chi più ne aveva bisogno, il cuore di piombo della statua viene portato a Dio, così le ultime parole di Wilde, prima che egli si abbandoni alla tanto attesa morte, vanno a riempire il cuore dei suoi amici più cari e di quegli orfanelli che lo hanno accompagnato fino alla sua tomba. Loro sono una dolce seppur amara rivincita per quei figli – i suoi – che Oscar non poté più riabbracciare.
Tra scelte registiche audaci e un montaggio ben congeniato, l’ottima sceneggiatura va avanti e indietro per ricordaci gli anni d’oro e la passione bruciante per Alfred Bosie Douglas ( qui interpretato da Colin Morgan, celebre per la sua partecipazione nella serie tv “Merlin” );le giornate afose e passionali delle bella Napoli; ma anche la povertà e il disonore, l’allontanamento dai circoli letterari e teatri più famosi, l’incapacità a comporre nuovi e brillanti testi; la fedeltà dei suoi amici più cari, Robbie Ross ( Edwin Thomas ) e Reggie Turner ( Colin Firth ) e di sua moglie Constance ( una sempre brava Emily Watson ).
Toccante. Originale. Provocatorio. Elegante.
Ossessionato dal trovare delle costanti nelle incostanze degli intenti di noi esseri umani, quando non mi trovo a contemplare le stelle, mi piace perdermi dentro a un film o a una canzone.
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