Potrebbe apparire estremamente rotorico dover celebrare la Giornata della Memoria. Racchiudere l’orrore e l’errore storico in una celebrazione alla stregua del Natale, San Valentino o la giornata mondiale del barboncino coccoloso della Val Brembana, potrebbe apparire riduttivo o semplicemente un modo per sciacquarsi la faccia per “far vedere che” , “ma io non sono razzista” e frasi di circostanza che prepotentemente sono tornate nell’assurda dialettica della nostra epoca.
In virtù di questo taglio critico, voglio presentarvi questa settimana uno dei migliori libri sul tema. Non è né un romanzo, né un trattato sulla Shoah.
La Banalità del Male: Eichmann a Gerusalemme.
LA TRAMA
Nel 1961 Hannah Arendt seguì le 120 sedute del processo Eichmann (il famigerato criminale nazista) come inviata del settimanale New Yorker a Gerusalemme. Otto Adolf Eichmann aveva coordinato l’organizzazione dei trasferimenti degli ebrei verso i vari campi di concentramento e di sterminio. Egli viene processato da un tribunale israeliano, nella sua difesa tenne a precisare che, in fondo, si era occupato “soltanto di trasporti“. Fu condannato a morte mediante impiccagione e la sentenza fu eseguita il 31 maggio del 1962. Il resoconto di quel processo e le considerazioni che lo concludevano furono pubblicate sulla rivista e poi riunite nel 1963 nel libro “La banalità del male” (Eichmann a Gerusalemme). In questo libro la Arendt analizza i modi in cui la facoltà di pensare può evitare le azioni malvagie.
“Restai colpita dall’evidente superficialità del colpevole, superficialità che rendeva impossibile ricondurre l’incontestabile malvagità dei suoi atti a un livello più profondo di cause e motivazioni. Gli atti erano mostruosi, ma l’attore risultava quanto mai ordinario, mediocre, tutt’altro che demoniaco e mostruoso. Nessun segno in lui di ferme convinzioni ideologiche o specifiche condizioni malvagie, e l’unica caratteristica degna di nota che si potesse individuare nel suo comportamento fu: non stupidità, ma mancanza di pensiero.”
HANNAH ARENDT
LA RECENSIONE
La realtà che la Arendt narra, va oltre i confini della percezione del reale.
La cronistoria del processo è una spirale verso l’orribile capacità umana di odiare che va al di là della crudeltà e delle spietate grida.
La Arendt si aspettava di incontrare un mostro di disumane proporzioni, una sorta di stregone sanguinario che sprizzasse odio da tutti i pori. Invece Eichmann non è altro che un pallido e grigio uomo d’ufficio. Un uomo qualunque. Un ragionier Filini del terzo Reich. Un grigio funzionario che in ogni ufficio burocratico ognuno di noi può incontrare.
Ma forse è proprio questa la “banalità” del male: insinuarsi nell’ordinario e nel lecito. Il male e l’odio hanno vestiti borghesi, appaiono pacate essenze del vivere quotidiano.
Eichmann non provava alcun rimorso di coscienza nel provocare sofferenza e a fare del male, poiché come egli disse sotto il Nazionalsocialismo il male era la legge che regolava il tutto e lui non aveva pensato neanche per un solo istante di infrangere la legge.
Fu per queste sue parole che la Arendt credette realmente nell’incapacità di Eichmann di rendersi conto di ciò che faceva.
L’imputato non riusciva a percepire l’errore e l’orrore. Durante il processo ammise: “Io mi occupavo dei soli trasporti”.
Per chiunque pensi che il male sia simile ad un diavolaccio con la forca o che abbia sempre l’impeto radicale della distruzione: non è affatto così.
Il male, viscidamente e inarrestabilmente, si insinua nel pensiero comune, si allarga, si espande e poi diventa legge.
In un trattato scritto per un dibattito su “Eichmann a Gerusalemme” nel Collegio Hofstra nel 1964, la Arendt ha affermato che banalità significa ‘senza radici’, non radicato nei ‘motivi cattivi’ o ‘impulso’ o forza di ‘tentazione’. La Arendt afferma inoltre: “La mia opinione è che il male non è mai ‘radicale’, ma soltanto estremo, e che non possegga né la profondità né una dimensione demoniaca. Esso può invadere e devastare tutto il mondo perché cresce in superficie come un fungo. Esso sfida come ho detto, il pensiero, perché il pensiero cerca di raggiungere la profondità, andare a radici, ed nel momento in cui cerca il male, è frustrato perché non trova nulla. Questa è la sua “banalità”… solo il bene ha profondità e può essere integrale.”
La banalità del male della Arendt è un libro che sarebbe d’obbligo leggere per conoscere le atrocità commesse, per capire l’animo umano quanto possa essere banalmente malvagio e spietato e per poter avere un’idea reale di ciò che è accaduto in quei terribili anni del Nazismo.