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Il velo può essere femminista?

- 17/05/2020


E’ passata ormai una settimana da quando Silvia Aisha Romano è tornata in Italia dopo 18 mesi di prigionia e l’escalation di odio nei suoi confronti aumenta costantemente.

Insomma, una settimana movimentata, in cui non si è parlato sempre e solo del Corona. Per un attimo mi è sembrato di tornare a quella tristissima realtà pre-quarantena, in cui si sceglie sistematicamente un bersaglio (nella maggior parte dei casi, donna) da odiare e via con le shitstorm a catena.

Tanti sono stati i motivi per cui questa ragazza sia diventata il mirino degli haters online: gli esperti di rapporti internazionali hanno criticato il pagamento del (presunto) riscatto da parte dello Stato, affermando che quei soldi potessero entrare nelle tasche degli italiani tramite le casse integrazioni, i virologi hanno protestato sul fatto che i genitori di Romano avessero potuto abbracciarla nonostante le restrizioni sanitarie imposte dalla pandemia e che i giornalisti sotto casa sua abbiano creato un mega assembramento. Poi ci sono creatori di fake news che lamentavano della sua gravidanza e del suo Rolex d’oro.

Ma, a mio avviso, la questione che ha creato più dissapori sul web è la conversione della ragazza all’Islam dichiarando di essere stata una sua scelta durante il periodo di prigionia, come se la questione ci riguardasse in prima persona.

I razzisti si sono lagnati del fatto che, se stava tanto bene in Somalia, essendosi anche convertita alla loro religione, poteva benissimo starsene lì senza creare tutto questo “baccano” e senza dover accogliere un’altra islamica (che per loro equivale a terrorista, poracci) nel nostro paese super-cristiano.

Poi c’è stata la feroce critica del suo abbigliamento, connesso alla sua conversione, appena atterrata a Ciampino. Silvia è tornata in Italia con un abito tradizionale somalo, dunque con il capo coperto, facendo dissentire alcune femministe radicali italiane, dichiarando che quella “busta verde della spazzatura” sia simbolo imprescindibile di sottomissione della ragazza ai suoi rapitori. Ma siamo cert* che sia così?

Che sia chiaro, questo non vuole essere l’ennesimo articolo su Silvia Romano, perché se n’è parlato fino all’infinito. Ma credo sia saggio riuscire a produrre una breve riflessione sulle questioni che vengono fuori da situazioni del genere. Da questa storia ci siamo resi ancora più conto di come siamo costantemente ossessionati dal corpo delle donne e di come lo agghinda o non agghinda.

Parliamo dunque della scelta di una donna di portare il capo coperto con un velo. Perché crea tanto trambusto?

VELO SI O VELO NO?

Il velo, come anche la questione del sex working e la GPA, sono temi scottanti del femminismo che riescono anche a dividere movimenti interi.

Come ogni filosofia, anche il femminismo nella sua vastità ha delle correnti interne più o meno diverse ma nessuna di esse è più femminista dell’altra. Bisognerebbe in effetti utilizzare la parola “femminismi“, al plurale, per spiegare la pluralità di questo movimento, con due secoli di storia e con molte declinazioni al suo interno.

Lo scontro generazionale è poi costante, poiché il maturare di determinate situazioni sociali e politiche mutano anche le battaglie e le rivendicazioni nel corso degli anni.

Il femminismo radicale, ad esempio, critica la scelta del velo, perché visto come simbolo di oppressione dell’uomo e della religione verso la donna. Questo concetto è figlio di “vecchie” battaglie per la liberazione della donna in una società prettamente bianca e cattolica, in cui il riappropriarsi del proprio corpo lo si ottiene scoprendosi. Scoprirsi è dunque segno di liberazione della donna, uscendo così dall’ordine costituito da anni di imposizioni maschiliste che le volevano pudiche e caste.

Quindi una donna che sceglie di coprire il capo viene vista come plagiata dalla sua cultura maschilista che impone di non mostrarsi. Ma se una donna oggi sceglie di sua sponte di coprirsi, non è libera di farlo?

Silvia Romano ha più volte ribadito che la sua conversione e quindi il coprirsi il capo sia stata una sua libera scelta.

Perché questa sua semplice dichiarazione non ci dovrebbe bastare?

FEMONAZIONALISMO

Come dicevo prima , ci sono diversi femminismi, e purtroppo non tutti sono per l’intersezionalità delle categorie discriminate.

Il Femonazionalismo è, per esempio, un fenomeno che deriva dal movimento, ed è l’uso da parte dei partiti di destra (e non solo) della rivendicazione dell’uguaglianza di genere per portare avanti politiche islamofobe e razziste.

In questo caso, l’uomo viene visto come invasore straniero maschilista, che impone alle donne di coprirsi mentre la donna musulmana è una semplice vittima da liberare.

Ma quando una donna bianca occidentale critica la scelta di una donna non occidentale sul suo modo di vestirsi e di vivere vi è un imposizione che porta a considerare che il mondo occidentale sia superiore a quello islamico: l’integrazione passa quindi solo attraverso l’assimilazione di pratiche occidentali.

Vi è dunque una cultura dominante, occidentale e colonizzatrice, atta ad imporsi sulle altre e il velo è uno dei simboli più palesi che dimostra, per loro, l’incompatibilità tra occidente e Islam.

IL VELO PUO’ ESSERE FEMMINISTA?

E’ chiaro dunque che il Femonazionalismo è l’opposto del Femminismo inclusivo e intersezionale, dove le donne possono e devono scegliere come essere, cosa indossare, come vivere. E bisogna semplicemente rispettarlo.

Il femminismo della quarta ondata, quello attuale, impone infatti la decostruzione di tutte le gerarchie e supremazie imposte dalla società patriarcale: non vi è alcuna cultura superiore all’altra, né un genere superiore all’altro, né un orientamento sessuale, né una classe sociale, né una religione, né un etnia. Esso accoglie e include tutte le diversità come ricchezza, senza doverle uniformare e neutralizzare ad uno standard predefinito, creando così lo stereotipo. Si ristabilisce così la libertà di scelta, poiché tutte le differenze esistenziali vengono portate allo stesso livello, tutelando i diritti di ciascuno.

Uno degli obiettivi del femminismo è dunque l’emancipazione e la parità dei diritti, e questo lo raggiungeremo solo se le donne saranno davvero padrone del proprio corpo senza che un uomo, una donna o religione si senta legittimato a decidere per loro.

Il velo quindi può essere femminista? Si, se è la donna stessa a scegliere consapevolmente di metterlo.

Infatti non si può negare che ci sono paesi nel mondo in cui le donne siano costrette ad indossarlo, a volte anche con metodi violenti. Ma siamo sicur* che l’islamismo sia l’unica religione che impone forme di sottomissione alle donne?

E nei paesi in cui il velo non è obbligatorio, siamo sicur* che le donne che scelgono comunque di indossarlo siano delle sottomesse?

Per alcune coprirsi il capo implica invece l’esatto opposto, perché può essere visto come un gesto di rivendicazione e liberazione, proprio perché la vera liberazione è nella scelta.

In un mondo occidentalizzato in cui la donna debba essere sexy ma non volgare, magra ma con le curve al punto giusto, giovanile ma non (troppo) rifatta, in cui debba essere prodotto e consumatrice per il capitalismo, il velo da’ fastidio perché va contro a tutto questo, perché indossarlo può liberare una donna allo stereotipo imposto dalla cultura occidentale predominante.

Inoltre, presumendo che tutte le donne con il velo siano oppresse, si sminuisce la scelta di quelle che vogliono indossarlo, come se non potesse realmente pensare con la loro testa. Questo rafforza una struttura di potere occidentale da sradicare alla radice, dove le paladine bianche strappano il velo di dosso alle donne musulmane perché da sole non possono liberarsi, senza chiedere loro se si sentono effettivamente oppresse.

Il loro vivere una “sottomissione”, reale o meno, è una questione che devono affrontare da sole, attraverso processi di rinegoziazione dell’identità che ognuno di noi crea tra appartenenze e scelte di vita.

Spetta a loro decidere che significato dare al velo, noi non possiamo fare altro che combattere per la libertà di scelta per tutt*.

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Classe 1990, Pescarese di adozione. Attivista transfemminista e co-fondatrice del Collettivo Zona Fucsia, si occupa da sempre di divulgazione femminista. È speaker radiofonica e autrice in Radio Città Pescara del circuito di Radio Popolare con il suo talk sulla politica e attualità "Stand Up! Voci di resistenza". Collabora nella Redazione Abruzzo di Pressenza. È infine libraia presso la libreria indipendente Primo Moroni di Pescara e operatrice socio-culturale di Arci.

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