È una realtà presente in Italia dal 2005 quella di Polis Aperta, associazione che promuove la cultura della non discriminazione a contenuto sessuale a partire da un contesto storicamente legato ad un’idea machista e sessista: quello delle forze dell’ordine.
Polis Aperta si propone di raccogliere le esperienze di tutti coloro che indossano una divisa e vivono la propria condizione di omosessuali, lesbiche, che secondo le statistiche rappresentano tra il 10% e il 15% del totale. E si occupa di tutelarli dalle discriminazioni sugli ambienti lavorativi grazie anche all’affiliazione ad una rete europea più ampia, l’EGPA (European Gay Police Association).
Tra le attività di Polis Aperta anche la promozione di conferenze e convegni atti a sensibilizzare gli appartenenti alla comunità lgbt su tematiche come la lotta e la prevenzione alla violenza, in tutte le sue forme.
A raccontarci nello specifico cos’è Police Aperta è il neo presidente (eletto nello scorso mese di aprile) Gabriele Guglielmo, 36 anni, agente di polizia locale a Torino.
Cos’è Polis Aperta? Quando nasce e con quali presupposti?
Polis Aperta nasce nel 2005, a dire il vero in maniera abbastanza clandestina, come punto di incontro e punto di ascolto per colleghi delle forze dell’ordine che si rispecchiavano nella comunità lgbt, gay, lesbiche. I primi soci facevano parte soprattutto della polizia di stato e polizia locale che cercavano un’occasione di confronto per discutere della propria condizione, delle proprie esperienze e della propria vita. La cosa che colpisce parlando con i colleghi ancora oggi è che all’inizio si è convinti di essere gli unici, e che non ci siano altri. Si raccontavano le esperienze di chi aveva osato dichiararsi ai propri colleghi, di chi ancora lo negava a se stesso, di chi aveva famiglia e viveva praticamente sotto copertura.
Si iniziò con un blog, poi sviluppatosi in un gruppo privato che ha dato vita ad una primigenia forma di Police Aperta. Nel 2009 abbiamo formalizzato l’associazione a livello istituzionale, e questo ci ha portato senz’altro molta visibilità. Da quel punto in poi abbiamo cominciato a percepire l’enorme evoluzione sul tema nella società e nei comandi di polizia italiani.
A chi vi rivolgete in particolare?
A tutte le forze dell’ordine, polizia di stato, polizia locale, carabinieri, guardia di finanza, ma anche tutti i rami dell’esercito: aeronautica, marina, esercito italiano. E anche ai vigili del fuoco.
Dove è nata l’associazione?
L’associazione non ha mai avuto una sede fissa. I soci fondatori erano toscani, emiliani, veneti, quindi piuttosto sparpagliati geograficamente. I primi meeting si svolgevano lì dove qualcuno metteva a disposizione la propria casa, a casa di colleghi di Firenze, Cesena, Vicenza. I fondatori si trovavano in cinque diverse zone d’Italia, perciò si eleggeva un punto a metà strada che potesse essere raggiungibile più o meno da tutti.
Lo scenario delle forze dell’ordine è spesso legato ad un’immagine machista. L’adesione a Polis Aperta ha mai comportato dei problemi per chi non avesse intenzione di metterci la faccia?
Effettivamente quando Polis Aperta è diventata un’associazione formale abbiamo faticato ad avere iscritti, perché si è riaffacciata in maniera prepotente la paura, per molti membri, di essere scoperti. Ancora oggi alcuni dei membri “originari” ci sostengono, supportano le nostre iniziative, gravitano attorno alla nostra realtà ma non partecipano più attivamente e non sono iscritti. Ad ogni modo non chiediamo di metterci la faccia perché il nostro statuto garantisce la privacy di ogni socio nelle prese di posizioni pubbliche, alcuni non sono dichiarati e va bene così.
Di passi avanti comunque ne sono stati fatti, il nostro attuale direttivo, eletto lo scorso aprile, è il primo, dalla nascita di Polis Aperta, ad essere totalmente dichiarato.
In base alle esperienze registrate dai vostri iscritti è facile far convivere la propria condizione di omosessuali, lesbiche, ecc con quella di membro delle forze dell’ordine? Penso soprattutto al rapporto con i colleghi…
Guarda, noi abbiamo notato che quelli che ci hanno messo la faccia non vivono problemi sul posto di lavoro. Abbiamo le testimonianze di chi si è rivelato ai suoi colleghi e non ha registrato alcun problema nella maniera più assoluta. Anzi, il contrario.
I colleghi che vivono nascosti sono molto più facilmente individuabili come obiettivi da colpire. Se sei dichiarato invece non ti vengono neanche a rompere troppo le scatole. Essere nascosti, o essere scoperti, comporta per forza di cose che nasca un pettegolezzo, un gossip, una chiacchiera, di cui diventa anche molto più interessante sparlare. Quando ho fatto coming out fino al giorno se ne parlava, nel momento in cui l’ho dichiarato evidentemente non era più così interessante e la cosa e morta lì.
Presumo che a quel punto intervenga anche una forma di rispetto nei confronti di una scelta o un’esposizione così delicata.
Sì, ma anche una questione di fiducia. Quando si parla di forze dell’ordine molti dimenticano che la persona con cui lavori 7 ore in pattuglia è la persona di cui tu di devi fidare al 100% anche perché rischia la vita insieme a te, e si presume che debba difenderti in caso di necessità. Stare lì 7 ore a nascondere chi siamo, cosa siamo, declinare il nome al femminile piuttosto che al maschile del proprio compagno o della persona che stai frequentando diventa un lavoro nel lavoro, e alla fine vivi 7 ore con il freno a mano tirato.
Ti sono mai state rivolte delle polemiche?
Tra le polemiche che mi sono state rivolte da quelli che non riescono ad accettare che io sia gay, e che io lo dica alla luce del sole, mi è stato detto “eh, ma tutta questa voglia esagerata di esposizione e manifestazione del tuo essere gay a cosa serve?”. Posto che la mia esposizione massima riguarda il fatto che ti ho detto di essere andato al cinema con mio marito, tu mi parli di quanto non sopporti tua suocera da due ore. Non è la stessa cosa? Se tu mi stai sbattendo in faccia la tua eterosessualità io ti parlo di mio marito. Tu mi parli della tua vita matrimoniale infelice io ti parlo della mia, sono tutte e due uguali no?
E a chi è contrario all’istituzione del matrimonio dico che voglio avere lo stesso diritto di un eterosessuale ad avere, per assurdo, un matrimonio infelice (ride, ndr).
Quindi se dovessi dare il tuo consiglio spassionato: fate coming out!
Io dico di sì. Anche perché gli stessi vertici delle forze dell’ordine sono molto sensibili a riguardo e non vogliono in nessun modo che si riconduca ancora oggi l’omofobia alle forze dell’ordine, pertanto si cerca molto di arginare le dichiarazioni omofobiche dei colleghi delle forze dell’ordine, e accade soprattutto con quelli più anzianotti, duri e puri, per i quali il maschio è eterosessuale e se sei gay non sei virile. Quelli che ci dicevano che un celerino (agente di un reparto mobile della Polizia di Stato, ndr) gay non può esistere perché in qualche modo, durante le cariche, la comunità civile ti riconosce. E io immaginavo i celerini col boa di struzzo che si potessero distinguere dagli altri, tipo con l’alone arcobaleno intorno… assurdo.
Parlando di omofobia, purtroppo in Italia c’è un vuoto legislativo sul tema. La legge Scalfarotto è ferma da anni nelle scrivanie del Parlamento. Quanto è problematico combattere i reati di omofobia se non è prevista un’aggravante specifica?
La mancanza della legge specifica è un dramma che noi viviamo, e cerchiamo di spiegare alla comunità lgbt, ma anche ai colleghi che ricevono le denunce. Non esistendo né un’aggravante né una legge specifica contro l’omofobia diventa impossibile riconoscere, attraverso il database nazionale (SDI) riconoscere i crimini di natura omo-lesbo-transfobica. Il database identifica tutti i reati in base agli articoli di legge ad essi collegati: ad ogni commissione di un crimine, per esempio di matrice razzista, o religiosa io posso individuarlo selezionando l’aggravante specifica sul database, che mi mostra dà tutti i crimini conseguenti.
Quando arriva il Giovanardi di turno a dire che non esiste l’omofobia in Italia perché non ci sono crimini registrati, dobbiamo sapere che non esistono perché non esistendo un’aggravante e una legge specifica nel nostro database, non esistono crimini registrati di questo tipo, non si possono calcolare, e se io pesto qualcuno perché omosessuale non avrò nessun aggravante. Però pensa, e la legge Mancino questo lo dice, se io pesto un valdostano perché parla francese, egli fa parte alla minoranza culturale di lingua francese e io ho un’aggravante specifica.
C’è un modo per sopperire a questa mancanza?
L’unico strumento che abbiamo oggi è fondamentale, ed è l’OSCAD – Osservatorio per la sicurezza contro gli atti discriminatori – che fa capo direttamente al Ministero dell’Interno e si appoggia sia alla polizia di stato che all’arma dei carabinieri. Nel caso delle discriminazioni lgbt fa statistica nazionale. Se si mandano più segnalazioni possibile, l’OSCAD le conta e crea una statistica. Ad oggi, ad esempio, possiamo sapere che nel 2017 sono stati registrati dall’OSCAD circa 150 casi di omofobia.
Occorre denunciare, denunciare e denunciare. Bisogna recarsi alla centrale più vicina, o contattare l’OSCAD via email (oscad@dcpc.interno.it) che una volta ricevuta la segnalazione attiva interventi mirati sul territorio da parte della Polizia di Stato e dell’Arma dei Carabinieri e segue l’evoluzione delle vicende discriminatorie segnalate. Permettimi però di sottolineare un aspetto importante.
Prego.
Spesso le aggressioni di matrice omofobica avvengono in luoghi videosorvegliati, come ad esempio gli autobus, i parcheggi. In questi casi è possibile risalire all’identità dell’aggressore attraverso le immagini in nostro possesso solo se però le denunce avvengono entro 48 ore dall’aggressione stessa. Secondo la legge sulla privacy infatti, dopo 48 ore le immagini delle telecamere di videosorveglianza vengono cancellate e non è più possibile fornire evidenza di prova. Pertanto, qualora vi sia la disponibilità di accedere a registrazioni video, è fondamentale che la denuncia sia immediata, entro 48 ore.
Parliamo adesso della conferenza del 16 maggio: La violenza legittimata. Di cosa tratterà?
Il titolo completo è “La violenza legittimata. Gli aspetti ambigui della comunicazione: la costruzione dei pregiudizi attraverso le parole”. La conferenza si terrà a Siena presso il Palazzo Patrizi, e si concentrerà sulla discriminazione non solo legata alla sessualità ma anche al genere. Partiremo dal monologo che Paola Cortellesi ha eseguito ai David di Donatello lo scorso marzo, nel quale faceva notare, con ironia ma anche con amarezza, come ogni parola che al maschile potesse avere un significato legato al prestigio, al potere, declinata al femminile avesse una valenza univoca: prostituta. Si parlerà soprattutto della costruzione dei pregiudizi e dei pericoli che gli aspetti più ambigui della comunicazione e dell’informazione.
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Segue la locandina dell’evento: