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Si chiama Femminicidio, non “dramma da convivenza forzata”.

- 05/04/2020


Sono settimane ormai che continuiamo ad attenzionare gli innumerevoli effetti collaterali della quarantena. Una quarantena assolutamente necessaria, al fine di frenare l’ondata dei contagi da coronavirus.

Pecchiamo però di benaltrismo, se continuiamo ad affermare che al momento attuale l’unica vera emergenza è il Covid-19, che si è fatto strada nelle nostre vite senza chiedere il permesso, che ci ha stravolto la vita sociale, lavorativa e familiare. Ma come si fa a negare l’evidenza? La quarantena ci sta mettendo di fronte ad una enorme crisi che va dal personale al politico, sollevando il velo che ha tenuto fin troppo a lungo nascosto le crepe della nostra società.

Queste crepe diventando ogni giorno sempre più grandi, feroci, violente. Diventando sempre più evidenti negli ospedali, dove i medici e gli infermieri non hanno abbastanza protezioni per evitare il contagio, nelle strade isolate, dove gli ambulanti e i senzatetto non sanno dove e cosa fare e ancora, nelle case, cuori di questa quarantena che dura ormai da quasi un mese. Il posto in cui ci assicurano di essere più al sicuro contro il male maggiore: il Covid.

Ma c’è un epidemia che dilaga anche nelle mura domestiche. E se qualche settimana fa potevamo solo ipotizzarlo, oggi, purtroppo, abbiamo dei dati alla mano ed è facile pensare che questi numeri aumenteranno.

La violenza è aumentata ma, di pari passo, sono diminuite le chiamate ai centri antiviolenza, calo dovuto dall’impossibilità delle donne nel chiamare in sicurezza il numero verde. Non possiamo quindi sapere quante violenze fisiche, psicologiche e sessuali si stanno perpetrando nel chiuso e silenzio delle mura domestiche, possiamo solo immaginarlo.

Ed infine sono aumentati i femminicidi, lo step finale dell’escalation della violenza di genere.

Sono stati registrati al momento attuale 5 femminicidi da quando è stato imposto l’isolamento, più di uno a settimana, e da quello che emerge dai mass media ci sono stati anche numerosi tentativi.

Forse molti più di quelli riportati, vista la situazione.

Il femminicidio

Prima di proseguire, ci tengo a precisare cosa significa femminicidio perché molto spesso viene ancora confuso con “omicidio di una donna”. Ma così non è: una donna morta in una rapina, non è un femminicidio. Un uomo che ammazza la sua compagna perché lo vuole lasciare è femminicidio.

Il femminicidio è l’assassinio di una donna in quanto donna (essere umano di genere femminile) che non rispetta il canone imposto dalla società patriarcale all’interno della coppia (o presunta tale, comunque nei confronti di un uomo). I moventi possono quindi essere tristemente disparati: l’essere uscita il sabato sera con le amiche (invece di stare con il proprio partner), non aver cucinato bene la zuppa o la bistecca, non aver pulito bene la casa, o quando ci si emancipa decidendo di lasciare il proprio marito/compagno… e così via.

L’uomo, di fronte all’inadempienza della donna nello stare nello stereotipo imposto, si sente legittimato a toglierle la vita, proprio perché la considera di sua proprietà.

Ecco perché una donna che muore in un incidente stradale non è un femminicidio (a meno che è il marito/compagno/ex ad investirla perché mezz’ora prima lo ha lasciato, per intenderci).

La narrazione tossica del femminicio

La narrazione del femminicidio è sempre ripetitivo e altamente tossico, perché si basa su due fronti in cui ancora troppi giornali ci continuano a sguazzare (vi consiglio di leggere il mio primo articolo sul femminicidio a Torino Di Sangro (CH))

Prima di tutto il racconto dell’uomo (femminicida) buono, che non avrebbe mai toccato un capello alla compagna ed anzi, è stata lei stessa a fare arrabbiare lui, capovolgendo così i ruoli tra vittima e carnefice.

La donna diventa così colei che, in fondo, meritava la sua morte, perché non è stata capace di rendere felice l’uomo (come se questo fosse l’unico obiettivo di una donna) che, “poverino“, non è stato capace di sopportare tanto dolore. Il tutto rafforzato dai dettagli, a volte fantasiosi, di come fosse la coppia prima del litigio, che nella maggior parte delle volte era considerata come “modello”.

Il secondo fronte invece è la “personificazione” del carnefice durante la narrazione del crimine, guidando i lettori ai possibili pensieri di pentimento del femminicida, giustificandolo poiché preda ad un immaginifico “raptus”. Il giornalista induce così il lettore alla comprensione delle motivazioni del crimine, fino a renderli condivisibili, dimenticandosi completamente della vittima.

Il femminicidio al tempo del coronavirus

La violenza contro le donne non viene fermata dall’epidemia ma il Covid-19 sta fornendo nuovo materiale lessicale nelle narrazioni tossiche sulla violenza: sono cambiate le parole, aggiungendo nuovi moventi, ma il risultato è pressoché lo stesso poiché, soprattutto il giornalista, si dimentica di chiedersi effettivamente quali sono le cause della violenza, buttandosi su facili risposte come la “convivenza forzata”, spostando così l’attenzione dalla realtà dei fatti.

Non centrano il punto, anzi, lo spostano.

E’ un ennesimo tentativo di sollevare la responsabilità dell’uomo assassino, un ulteriore attenuante al crimine commesso. La colpa non è (di nuovo) dell’uomo, ma della quarantena. E magari anche della donna che, durante i giorni chiusi in casa, non si è concessa sessualmente al marito, o che non lo ha lasciato a guardare la tv mentre i bambini strillano che volevano uscire, magari lei lo ha stressato chiedendogli aiuto in casa (e i meme che girano su whatsapp, della donna che “rompe le palle” all’uomo durante la quarantena ne sono fin troppi e sono il sintomo di un sentire sessista generale).

Quindi perché continuare a dare la colpa a tutto e a tutte, ma non al vero criminale?

Barbara Rauch non è morta il 10 Marzo perché lei non accettava le avances del suo stalker, ma perché è stata ammazzata dallo stalker.

Bruna De Maria non è stata uccisa dai problemi finanziari, ma dal marito che era preoccupato per le sue finanze.

Rossella Cavaliere non è stata accoltellata il 13 Marzo dalle restrizioni del coronavirus, ma dal figlio che voleva uscire di casa a tutti i costi.

Lorenza Quaranta non è stata ammazzata il 31 Marzo dalla convivenza forzata, ma dal compagno che la accusava di avergli contratto il Covid .

Non è stata la quarantena a sparare il 2 Aprile a Gina Lorenza Rota, ma il suo compagno, per poi suicidarsi.

Il coronavirus non ha cambiato la violenza contro le donne nelle relazioni. Ciò avviene per mano di uomini violenti, che mettono in atto un dominio sulla donna, perché ha introiettato dentro di se la gerarchia patriarcale dei ruoli dove la donna è subordinata. Una subordinazione invisibile, proprio perché è talmente insito nella società in cui viviamo che nemmeno le persone più vicine alla vittima riescono a vederlo.

La convivenza forzata può solo accelerare e far scattare aggressioni più frequentemente o violentemente. Ma il colpevole rimane il femminicida.

Quindi mi unisco anche io, durante questa quarantena, al grido delle compagne che ribadiscono a gran voce che le donne uccise non sono state vittime di un dramma da convivenza forzata, bensì di femminicidio. Uccise da quei uomini che si sono sentiti legittimati a farlo.

Prendiamoci la responsabilità di chiamare la violenza sulle donne con il suo nome.

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Classe 1990, Pescarese di adozione. Attivista transfemminista e co-fondatrice del Collettivo Zona Fucsia, si occupa da sempre di divulgazione femminista. È speaker radiofonica e autrice in Radio Città Pescara del circuito di Radio Popolare con il suo talk sulla politica e attualità "Stand Up! Voci di resistenza". Collabora nella Redazione Abruzzo di Pressenza. È infine libraia presso la libreria indipendente Primo Moroni di Pescara e operatrice socio-culturale di Arci.

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