L’influenza dell’emancipazione femminile è penetrata nelle reti mafiose? O la donna di mafia è ancora dipendente dal potere maschile?
I princìpi da tenere a mente analizzando il ruolo femminile all’interno dell’organizzazione mafiosa sono due.
Il primo è che la mafia esercita un forte controllo sulla sfera privata e da sempre esclude formalmente le donne da ruoli di anche minima responsabilità.
Il secondo è l’impossibilità di tipizzare le donne appartenenti alle famiglie mafiose. Ognuna di esse ha una propria storia e il rischio generalizzazione è prossimo; abbiamo esempi di donne d’onore, donne vendicatrici, donne coraggiose collaboratrici di giustizia, donne vittime della spietata mano mafiosa e donne rimaste nell’ombra della struttura arcaica delle famiglie.
Il ruolo tradizionale
La pervasività dell’organizzazione criminale porta le donne ad esercitare, senza possibilità di scelta, i tradizionali ruoli di mogli, madri e figlie disciplinate, trasmettendo alla prole il codice mafioso. È proprio la madre a creare la “psiche mafiosa”, a radicare nei più piccoli la cultura della vendetta e dell’omertà. Il contributo passivo della figura femminile, guidato dalla struttura patriarcale della famiglia mafiosa, si delinea nel garantire la reputazione degli uomini e nel fungere da oggetto di scambio nelle strategie matrimoniali tra clan.
Il ruolo criminale
Verso la fine degli anni ’80 studi sempre più approfonditi sul fenomeno mafioso e testimonianze di collaboratori e, soprattutto, collaboratrici di giustizia svelano le mansioni femminili sempre più attive e distanti dagli stereotipi popolari. Al ruolo tradizionale va via via ad affiancandosi un vero e proprio ruolo criminale.
Le donne sono consapevoli degli atti violenti perpetrati dai clan e svolgono compiti fondamentali per la sopravvivenza degli affari, che vanno dal sostegno materiale e psicologico alla temporanea attività di prestanome, di gestione di patrimoni, finanze e traffici, estorsioni e mediazioni. Il loro intervento nella sfera criminale da sporadico diventa più sistematico, complici sia la crescente affermazione socioculturale femminile in Italia, sia la detenzione e la latitanza di numerosi esponenti mafiosi di spicco.
La “vedova nera” della camorra
Una storia simbolo della crescita del potere mafioso femminile è quella di Anna Mazza, la cosiddetta “vedova nera” della camorra, prima donna condannata per reati d’associazione mafiosa diversi dal mero favoreggiamento. Dopo la morte del marito Gennaro Moccia, Anna Mazza divenne la mente del clan e cercò di fondare il primo matriarcato della camorra. Iniziò a fare affari e a creare ramificazioni tra imprese, sino ad arrivare a gestire decine di miliardi di euro nell’edilizia pubblica nei comuni a nord-est di Napoli. Il clan Moccia diventò il più importante in assoluto nella gestione degli appalti edili e nel controllo delle cave. Fino al 1987, anno in cui viene arrestata, si fece accompagnare da una scorta di sole donne e spinse i figli all’emulazione. Alcuni camorristi raccontano che Anna esortò il figlio Antonio, di soli tredici anni, a vendicare l’uccisione del padre, per ripagare il sangue con sangue.
Un modello segnato dalle assenze
La storia di Anna Mazza, come l’intero apparato mafioso, si regge su un principio paradossale: il modello familiare costruito intorno agli uomini è, nella quotidianità, segnato dalla loro assenza. La famiglia mafiosa è intrinsecamente strutturata sulle assenze maschili. Da questa cultura rigidamente fondata su norme dettate dagli uomini, di fatto, gli uomini sono spesso distanti. Le storie di vita degli uomini mafiosi includono periodi, più o meno lunghi, talvolta ripetuti, talvolta definitivi, di detenzione e latitanza, che li allontanano dalla famiglia. Nella cronaca familiare, dunque, ricorrono le assenze di mariti, padri e fratelli. Assenze che provocano sempre forti sofferenze poiché, come ci fa notare il giudice Falcone, “la lettura delle trascrizioni delle conversazioni telefoniche […] ci rivela una quantità di notizie sui rapporti tra marito e moglie. Sull’affetto immenso per i figli, sul calore incredibile dei rapporti familiari, tutte cose sorprendenti in gente spietata, abituata a usare le armi”.
Pseudo-emancipazione
Le donne contribuiscono quindi alla sopravvivenza e alla riproduzione del modello mafioso, ma si può parlare di emancipazione criminale?
Secondo Ombretta Ingrascì, autrice e studiosa di criminalità organizzata, è vero che le donne di mafia partecipano consapevolmente alle attività criminali e finiscono a svolgere mansioni sempre più rilevanti, ma, subendo regole maschili, continuano a riprodurre una subordinazione dell’autorità dell’uomo. La trasformazione della figura femminile interna alla mafia non ha portato una sua effettiva indipendenza; al contrario, si sta verificando «un utilizzo strumentale dell’emancipazione femminile da parte dell’organizzazione mafiosa», dunque, una pseudo-emancipazione.
In conclusione, il mondo mafioso femminile si può sintetizzare in un quadro di relazioni di stampo patriarcale, dipendenza economica, controllo da parte dell’uomo, mansioni ad alto rischio e concessione temporanea di potere. L’inclusione della donna si configura come strumentale alle attività criminali. Ed ecco perché il femminismo è, per definizione, antimafioso.
In un contesto oppressivo e rigido come quello mafioso, non c’è spazio per la libertà di pensiero, di espressione e di scelta. Neppure per gli uomini.
leggi anche: Donne e madri di ‘Ndrangheta: l’altra metà del crimine
Fonti:
Documenti e scritti vari – appunti sulla ricerca “Donne e mafia” del Centro Siciliano di documentazione Giuseppe Impastato
Estratti di “Meridiana – rivista di storia e scienze sociali”, n.67, “Donne di mafia”, 2010
Articolo “Studio criminologico sul ruolo della donna nella mafia tra Lombroso, teorie sociologiche della devianza e vittimizzazione”, Salvis Juribus, 2020
Articolo de “Il Mattino” – “Anna Mazza la “vedova nera” più temuta dai clan”