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I Lager e il simbolismo del dolore

- 27/01/2020


Per ricordare le vittime dell’olocausto ogni 27 Gennaio si celebra il Giorno della Memoria, giorno in cui, nel 1945, le truppe dell’Armata Rossa liberarono i superstiti del campo di concentramento di Auschwitz.

Un periodo terrificante durante il quale sono morte milioni di persone. Maltrattate, picchiate, denigrate, umiliate, uccise barbaramente anche solo per gioco e divertimento. I sani divisi dai malati. Le donne divise dai bambini e dagli uomini. Tutti nudi, tutti vestiti uguali, tutti a lavorare. Definito dai nazisti “soluzione finale della questione ebraica”, il campo di concentramento era sinonimo di “fabbrica della morte”.

L’arrivo nei lager

Tutto iniziava con il prelevamento e il trasporto degli ebrei in vagoni dove venivano letteralmente buttati e pigiati senza aria, senza acqua, in piedi in condizioni igieniche disastrose e viaggiavano anche fino a 15 giorni per raggiungere poi il campo di concentramento al quale erano stati destinati, scelto per la sua capacità ricettiva.

L’umiliazione andava peggiorando, all’arrivo infatti venivano subito suddivisi tra abili al lavoro o quelli da inviare direttamente alla morte. 

Solo il 25% dei deportati aveva possibilità di sopravvivere, il restante 75% (donne, bambini, anziani, madri con figli) era inviato direttamente alle camere a gas. In caso di sovraffollamento del campo di concentramento spesso non venivano neanche suddivisi ma venivano direttamente mandati a morire.

Se la selezione aveva avuto modo di dare delle persone abili al lavoro si procedeva con: rasatura su tutto il corpo indipendentemente dal sesso (scorticati con rasoi e disinfettati con prodotti acidi e urticanti); doccia, fatta con acqua bollente alternata a quella gelida; vestizione con pigiami a strisce grigie scure composti da casacca, pantaloni e zoccoli spaiati e pesanti.

Conclusa questa operazione, umiliante e mortificante, allo scopo di privarli completamente della loro identità e natura, venivano marchiati con un numero progressivo tatuato sull’avambraccio sinistro. Tale numero andava a sostituire il nome e doveva essere imparato a memoria in tedesco per capire quando venivano chiamati per mangiare o per ricevere ordini di qualsiasi natura. La mancata risposta all’appello era ovviamente punita con torture o morte

Triangoli colorati per riconoscere i prigionieri

Oltre alla categorizzazione numerica, nei campi di concentramento, c’era anche una simbologia che veniva disegnata sulla casacca per distinguere ulteriormente i prigionieri. I famosi triangoli. Le colorazioni erano le seguenti: ROSSO (prigionieri politici, religiosi cristiani), VERDE (prigionieri criminali), NERO (gli asociali), BLU (emigranti), VIOLA (testimoni di Geova), ROSA (omosessuali, colore scelto per spregio nei confronti di chi era effeminato: alle lesbiche internate di cui si ha notizia fu imposto, invece, il triangolo nero delle persone “asociali”), MARRONE (Rom). Ma non erano gli unici simboli per identificare il gruppo di appartenenza dei prigionieri.

I nazisti avevano anche creato dei simboli per distinguerli ulteriormente:  quelli che erano da educare  venivano segnalati con una “E” prima del numero di matricola, un cerchietto rosso con “IL” era il simbolo di quelli che avrebbero potuto tentare la fuga, quelli speciali avevano una banda marrone sul braccio. Le stelle gialle a sei punte invece servivano per identificare i prigionieri ebrei.

Innumerevoli modi per poter ghettizzare ancora di più una “specie” all’interno di un campo di concentramento al quale la maggior parte non sarebbe sopravvissuta. Scendendo nel dettaglio e volendo concentrarsi su un colore in particolare in questo mare di atrocità, possiamo dire che il rosa era tra i più perseguitati. La necessità di contraddistinguere gli omosessuali era dettata dal fatto che, i Nazisti, credevano che gli uomini omosessuali fossero deboli ed effemminati (da qui la scelta del colore rosa), incapaci di combattere per la nazione tedesca. I prigionieri che portavano il triangolo rosa sull’uniforme erano trattati in modo particolarmente brutale e rientrarono tra coloro che subirono i peggiori abusi, tra cui la sterilizzazione forzata o castrazione. Tra le testimonianze gay nei campi di sterminio ricordiamo Pierre Seel e la sua autobiografia Io, Pierre Seel. Deportato omosessuale).

Lo sterminio degli omosessuali nei campi di concentramento nazisti è passato alla storia come Omocausto, oggetto di approfondimento in questo articolo.

omosessuali campi di concentramento

A seguito di stermini, orrore e ingiurie inflitte, nel 2002 il Governo tedesco ha chiesto ufficialmente scusa alla comunità gay.

Il Giorno della Memoria serve anche a questo, a ricordare, a parlare di qualcosa che ha fatto e fa ancora oggi paura. Della follia. Della cattiveria. Della totale assenza di senso logico nel volere sterminare una razza considerata inferiore. Quest’anno si festeggia il 72° anniversario dalla liberazione dai campi di concentramento, un giorno per commemorare i 15 milioni di vittime dell’Olocausto rinchiusi e uccisi nei campi di sterminio (la Shoah ebraica). Tante testimonianze, molte poesie e testi scritti, reperti di detenuti che avevano nascosto le loro memorie.

Racconti di quel periodo che pur carichi di sofferenza non potranno mai trasmettere il dolore e la paura che ha comportato avere un pigiama a strisce e vivere ogni minuto come fosse l’ultimo della loro vita.

«Considerate se questo è un uomo
Che lavora nel fango
Che non conosce pace
Che lotta per mezzo pane
Che muore per un sì o per un no.»


(Primo Levi)

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Non mi descrivo mai perché non sono gentile con me stessa

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