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DOGTOOTH _ L’indomabile desiderio di libertà (recensione)

- 01/09/2020
DOGTOOTH di Yorgos Lanthimos (2009)


DOGTOOTH di Yorgos Lanthimos arriva nelle sale italiane 11 anni dopo la sua uscita con la stessa depravata poetica e la stessa potenza visiva. Opera manifesto del regista greco che nel 2009 gli valse la Palma d’oro a Cannes e la candidatura al Miglior Film Straniero.

In una grande villa sperduta tra le campagne vive una famiglia. Il capo famiglia è il solo che può uscire all’esterno. La madre e i tre figli (un maschio e due femmine) vivono all’interno del grande recinto che li protegge da ciò che c’è fuori. Eppure l’educazione riservata ai ragazzi ha qualcosa di fortemente stonato e sbagliato.

Il secondo film di Yorgos Lanthimos è certamente tra le opere più significative della sua filmografia perché sono contenuti in essa tutti gli elementi a lui più cari e quindi summa della sua straniante e cinica poetica.
Dopo il grande successo di critica ottenuto con questo film, Lanthimos avrebbe avuto libero accesso a Hollywood, potendo attingere a un cast di maggior respiro internazionale, ma filtrando il suo messaggio per renderlo più digeribile al pubblico oltreoceano.

Le due sorelle del film di Lanthimos, DOGTOOTH (2009)

Ecco arrivare opere come THE LOBSTER (2015) con Colin Farrell e Rachel Weisz fino ai più recenti successi de IL SACRIFICIO DEL CERVO SACRO (2017) sempre con Farrell e una magnetica Nicole Kidman; e lo splendido LA FAVORITA (2018) con un trittico di attrici straordinarie (Olivia Colman, Rachel Weisz e Emma Stone).

In questo DOGTOOTH la fotografia di Thimios Bakatakis alterna colori pastello a tonalità più fredde. Essa conferisce una luce straniante alle composizioni quasi architettoniche di Lanthimos (la simmetria degli oggetti e dei corpi longilinei dei suoi giovani attori).

L’impianto teatrale e il richiamo ad elementi della cultura greca e della sua tragedia antica sono essenziali perché si possa guardare al film come a una grande metafora non solo del paese natale del regista, ma più in generale a quei sistemi dittatoriali, alle società chiuse, dove il popolo (rappresentato qui dai figli) sembra accogliere passivamente e come vero quanto gli viene proposto e detto dall’alto (il capofamiglia).
I figli sono cresciuti e ammaestrati come cani obbedienti e vivono completamente asserviti al padre-padrone, convinti che essi siano al sicuro dalle avversità del mondo esterno. Di loro non sapremo mai il nome, né l’età, ma sono chiaramente maggiorenni pur comportandosi spesso come bambini.

Altro richiamo importante è certamente quello ai testi biblici. La presa di coscienza, la frattura con lo stato delle cose, arriverà da una donna (esterna al nucleo familiare che ha un ruolo determinante nello sviluppo della sessualità del figlio maschio) che come un Eva moderna offrirà a una delle figlie la mela della conoscenza, rappresentata qui da delle vhs. La ragazza guarderà e assimilerà come veri elementi e dialoghi e figure tratte da pellicole come ROCKY e LO SQUALO e FLASHDANCE, che le mostrano una realtà e un mondo diverso, ricco di avversità e mostri, ma anche di amore e di possibilità a lei negate. Ed è qui che ella apre gli occhi, si desta dal sogno incubo in cui è destinata a vivere.

Da qui ne seguirà una reazione altrettanto feroce ma necessaria, una rivoluzione perché dalla presa di coscienza si raggiunga una propria affermazione come essere umano. Ma Lanthimos non perde il suo sguardo e il suo tratto cinico e chiude il film in maniera beffarda e crudele, lasciando lo spettatore in attesa di qualcosa che forse non arriverà mai.

LA SPIEGAZIONE DEL FINALE

Negli ultimi dieci minuti di film tutto precipita.
La figlia maggiore ormai è decisa a voler superare la cinta di mura che la tiene prigioniera. L’unico modo per farlo è perdere un canino (ecco il DOGTOOTH del titolo) per raggiungere la maturità e quindi la possibilità di avventurarsi nel mondo esterno, questo almeno secondo quanto gli è stato insegnato.
Così la notte dell’anniversario dei suoi genitori (dopo un primo gesto di ribellione nel ballare la coreografia di FLASHDANCE) ella va in bagno, impugna un manubrio e si colpisce più volte sul viso, fino a rompersi i denti. Sanguinante poi si nasconde nel bagagliaio dell’auto del padre (il solo che esce dalla casa ogni giorno per andare a lavoro). Il giorno seguente l’auto del capofamiglia si parcheggia davanti alla fabbrica dove egli lavora. La camera indugia sullo sportello del bagagliaio. Non si percepisce alcun movimento o rumore al suo interno. Stacco. Titoli di coda.

Come lo schiavo del mito della Caverna di Platone, la ragazza percepisce inizialmente come vere le ombre di una vita monca che le è stata imposta. Poi tramite la visione delle vhs comprende che quanto conosce del mondo è solo parte di esso se non addirittura menzogna, ma non è la realtà (così come non è neppure realtà quanto vede nei film americani). Tuttavia ella non potrà mai raggiungere la verità assoluta, non entrerà mai in contatto con la realtà: da uno stato di schiavitù incosciente (la villa, la famiglia) ella non ha i mezzi necessari per affrontare il mondo esterno e si chiuderà in un’altra prigione volontariamente (il portabagagli dell’auto) da cui poi non saprà o non vorrà uscirne, intimorita dall’ignoto.

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Ossessionato dal trovare delle costanti nelle incostanze degli intenti di noi esseri umani, quando non mi trovo a contemplare le stelle, mi piace perdermi dentro a un film o a una canzone.

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