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MEKTOUB, MY LOVE: Canto Uno (2017)

- 12/06/2018


Estate 1994.
Amin, aspirante sceneggiatore e appassionato di fotografia, torna da Parigi per trascorrere le vacanze estive nella sua terra natia, nel sud della Francia.
Qui ritroverà le sue abitudini, tra giornate passate sulla spiaggia e serate tra locali e gli amici di sempre.

Abdel Kechiche dopo il grande successo ottenuto con “LA VITA DI ADELE” (2013) torna a guardare alla stagione degli amori e delle passioni col suo sguardo inconfondibile.
Nei suoi 180 minuti il cineasta di origini tunisine si addentra nella Vita come pochi registi sanno fare.

Ispirandosi al romanzo “La Blessure la vraie” di Francois Bégaudeau, il regista ci porta dentro al suo film nell’unico modo possibile: guardando dal di dentro l’azione.
Lo spettatore è portato a guardare i fatti narrati come se stessero accadendo ora, adesso.
Ed è questa cifra documentaristica e le riprese fatte a mano – con la cinepresa che quasi va a toccare quei corpi e quei volti da vicino – che rendono i suoi film un’esperienza unica e totalizzante.

Kechiche si nasconde dietro il personaggio di Amir ( il bellissimo Shain Boumedine ) che assiste agli eventi di un’estate indimenticabile dove cerca di intrappolarne la sua essenza nella memoria, nelle fotografie, ma è solo spettatore, mai attore protagonista.
Attraverso lo sguardo ora severo e amabile di Amir, guardiamo il fiorire di relazioni e di passioni che bruciano come sale sulla pella bagnata ora dal sole e ora dal mare; spiamo l’amplesso di due amanti; cogliamo tutta la fragilità di una ragazza innamorata destinata a soffrire; siamo incuriositi dalla dirompente sensualità di un’altra ragazza che seduce e si infatua di uomini e di donne; ci perdiamo tra le luci di una discoteca.
In un gioco di richiami al mezzo cinematografico, in cui la figura del regista e quella dello spettatore sembrano sovrapporsi, è innegabile vi sia un piacere voyeuristico ( ma mai morboso ) che appartiene a noi tutti, ma sarebbe limitante e limitato pensare che sia solo questo.
Kechiche si prende tutto il tempo che vuole, lo dilata a suo piacere, si sofferma anche nelle scene e nei dialoghi in apparenza più banali e vuoti, perché è questo l’unico modo in cui lo spettatore possa entrare in quella realtà che non gli appartiene: al pari delle turiste in vacanza che vengono portate in giro per i locali e nelle strade della cittadina, tra amici e parenti dei ragazzi conosciuti, lo spettatore familiarizza con i volti e le voci e i desideri dei personaggi.

Evocativa ed esplicativa è la scena in cui Amir è determinato a fotografare la nascita di un agnellino.
Cammina per ore nello spazio delimitato da un recinto dove si muove un gregge di pecore, osservandone una in particolare che è prossima al parto, ma non si sa bene quando accadrà.
Solo dopo tanto tempo la sua pazienza verrà ripagata e assiste al miracolo della vita.
Ed è così anche questo film: necessita di tutti i suoi 180 minuti perché se ne comprenda il senso e se ne assapori la sua semplice e infinita bellezza, che guarda alla giovinezza, al sesso, alle lacrime, al piacere, al desiderio senza filtri o riflessioni pretestuose. Semplicemente, profondamente, la nostra vita.

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Ossessionato dal trovare delle costanti nelle incostanze degli intenti di noi esseri umani, quando non mi trovo a contemplare le stelle, mi piace perdermi dentro a un film o a una canzone.

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