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Il Reddito di Libertà: uno sguardo femminista.

- 12/12/2021


Il mese scorso la nostra avvocata Sara Astorino (di cui ringrazio moltissimo anche dell’aiuto per scrivere questo pezzo) ha scritto un puntuale articolo sul Reddito di Libertà, spiegando nel dettaglio cosa comporta questa nuova forma di aiuto per le donne che stanno fuoriuscendo dalla violenza, come si fa per accedere e i dettagli economici a riguardo.

Certamente questa nuova misura è una grandissima vittoria per lo Stato Italiano, troppo spesso non curante di tutte quelle donne che hanno subito una violenza domestica e che con gran fatica cercano di uscirne, grazie alla rete d’aiuto dei centri antiviolenza. Il solo fatto che sia stato pensato ad un reddito del genere fa capire l’enorme passo avanti verso la consapevolezza e la visibilizzazione del problema, resa chiara tanto da iniziare a pensare un provvedimento ad hoc.

Ma come ogni provvedimento acerbo, troppe sono le insidie e le criticità di questo sussidio, le cui intenzioni erano ottime, ma tradotte con scarsa efficacia.

Di quanto parliamo? E a chi?

Prima di tutto la questione economica è uno scoglio abbastanza importante, ma non solo a livello di cifre, ma anche di distribuzione del fondo, pari a 3 milioni di euro su scala nazionale.

Parlare di “fino a” 400 euro al mese per una donna è già di per se una cifra irrisoria, soprattutto se si ha un* figl* a carico, ed è solo per 12 mesi, quindi un tempo davvero molto limitato. Se poi ci aggiungiamo che il reddito, facendo un piccolo calcolo, andrebbe solo a 625 donne in tutta Italia, su circa 50mila donne che stanno portando avanti un percorso con un CAV, rende ancora più palese l’inefficienza di questa proposta.

In Abruzzo, ad esempio, è stato calcolato che il Reddito potrà essere dato solo a 12 donne in tutta la regione. Su un numero di donne seguite dai CAV 100 volte superiore.

Come è redistribuito il fondo?

La distribuzione, infine, non fonda su ragioni prettamente logiche, in quanto è connesso alla distribuzione delle somme in base al numero di donne presenti in ogni Regione. E non in base alle donne seguite dai Centri Anti Violenza, o seguendo un tasso di disoccupazione femminile, il che sarebbe stato più sensato.

Ed in base a questo calcolo sono state erogate somme maggiori nelle Regioni in cui ci sono più donne (dai 18 ai 67), senza tenere però conto di altri fattori. In Lombardia, per esempio, ci sono più donne che in Calabria, ma è anche vero che le donne che lavorano in nord Italia sono molte, molte, di più rispetto a quelle che lavorano nel sud. 

Ciò comporta che in Calabria sia più facile che un donna dipenda completamente dall’uomo, con la conseguenza che potrebbe essere necessario avere un maggior numero di fondi. 

Ma questo chiaramente non lo si è tenuto in considerazione, non ci si è realmente occupati delle questioni di genere, che raggruppa in se una serie di problematiche, collegate strettamente tra di loro, e che crea un circolo vizioso di disuguaglianza.

A quali donne?

Non vi è inoltre un vero e proprio metodo di selezione delle donne che possono usufruire di tale reddito.

Pare che il metodo sia puramente di tempistica: il reddito va alle prime donne che consegnano la domanda al comune. Il che è davvero molto poco logico, in quanto un tale aiuto andrebbe alle donne che ne hanno più bisogno, e non alle prime che hanno la possibilità di recarsi al comune e consegnare la domanda. Non vi è alcun tipo di riferimento circa l’ISEE della donna che fa richiesta, ma solo una sua autocertificazione di bisogno e da parte del CAV, il che porterebbe ad una selezione poco accurata delle donne di cui ne hanno necessità.

Quindi una donna che lavora ed ha un reddito ha diritto di prendere il fondo se sarà tempestiva?

Chi non sarà immediata, ed è praticamente impossibile esserlo visto che occorre essere in possesso di due certificazioni provenienti da enti diversi, andare poi in comune ed attendere che l’impiegato trasmetta la domanda, il tutto ovviamente in uno stato di emergenza sanitaria che ancora non è stata revocata e che incentiva lo smart working, non avrà diritto al reddito di libertà, con dei tempi strettissimi.

Inoltre, un ulteriore superficialità: perché nella selezione sono escluse le donne immigrate irregolari, e purtroppo non stiamo parlando di una piccola percentuale, anzi. Parliamo di donne che, soprattutto a causa della loro condizione, sono vittime ideali perché i loro aguzzini sanno benissimo di non poter essere denunciati. Sono le stesse donne che spesso sono costrette a prostituirsi o che, pur rimanendo in casa, vengono trattate come di loro proprietà.

Infine, il reddito è previsto solo ed esclusivamente alle donne dai 18 ai 67 anni, escludendo una parte di popolazione femminile che subiscono violenza che troppo spesso non vengono prese in considerazione.

Perché escludere una donna di 70 anni che è vittima di violenza? Ed anzi, che ha sicuramente ulteriori complicanze, come appunto l’impossibilità di lavorare? E che magari proprio per aver subito violenza economica non ha potuto raggiungere dei contributi tali per una degna pensione?

E poi: la violenza domestica accade anche nei minorenni, un caso particolare ma che purtroppo molto spesso viene riscontrato. Perché queste due categorie di donne non possono avere la possibilità di emanciparsi di fronte ad una violenza subita?

Le tempistiche.

Come dicevo prima, non vi è alcun criterio di selezione delle donne che potranno usufruire del reddito, quindi tutto sarà in base alla velocità della presentazione delle domande.

E il tutto è possibile farlo entro e non oltre il 31 Dicembre. Tempo davvero irrisorio per la preparazione dei documenti ma soprattutto per la divulgazione e l’informazione di questa misura di aiuto. Ad oggi moltissimi comuni, che fanno da tramite per accedere al reddito, non si sono interessati alla pratica, i cui uffici sono intasati da pratiche ordinarie dovute anche dalla pandemia e lo smart-working. Non era forse meglio agevolare il tutto e fare anche in maniera telematica (in quanto sappiamo bene che la digitalizzazione è un privilegio, ma che faciliterebbe il processo)?

Ma soprattutto, non sarebbe stato più efficace raccogliere tutte le domande, accogliere anche quelle dopo la scadenza, valutarle ed eventualmente ridistribuire il fondo tra le regione di cui ne hanno più bisogno?

Per lo Stato è “una misura emergenziale“.

Il Reddito di Libertà è considerata una misura emergenziale, ma non c’è nulla di più sbagliato e pericoloso di questo.

La violenza economica, che con questa misura viene riconosciuta come fenomeno strettamente correlato all’interno della violenza di genere, non è una emergenza, ma una dinamica sistemica e sociale. Considerarla una emergenza implica che ciò sia un’avvenimento eccezionale, anomalo e raro. Invece questa dinamica avviene costantemente all’interno di una relazione tossica, in cui la dipendenza economica rende ancora più salda la gabbia della violenza, soprattutto se con figl* a carico. Una donna che non ha una casa dove rifugiarsi, che non ha un lavoro, magari lasciato per volere dell’abusante per averla maggiormente in pugno, si sente ancora più costretta a non scappare.

E il tutto parte dagli stereotipi, reali nella vita di tutti i giorni: all’interno di un nucleo famigliare è l’uomo che di solito lavora (ed ha anche più opportunità lavorative…), mentre la donna si occupa del lavoro di cura. Facendosi leva di questo stereotipo, legittimato dalla società e dalla nostra cultura patriarcale, non è poi così difficile pensare che un uomo chieda alla compagna/moglie di lasciare il lavoro, magari con la scusa di volersi prendere cura di lei.

Senza tenere conto che il salary gender gap è sempre dietro l’angolo: la donna prende il 12% in meno rispetto l’uomo, rendendola bersaglio inevitabile per questo tipo di dinamica violenta.

Conclusioni

Un Reddito di Libertà efficace dovrebbe essere considerato a lungo termine, con procedure più accurate e con un accompagnamento della donna nella ricerca del lavoro, tramite corsi di formazione, tutoring e orientamento. Tutte attività necessarie per la vera e propria fuoriuscita della dipendenza e della violenza.

Nel momento in cui questo fenomeno viene finalmente riconosciuto, ed è già un enorme traguardo per la lotta alla parità, bisogna fare il passo successivo: studiarlo e comprenderlo. Altrimenti si rischia di mettere un cerotto su una ferita molto più grande e profonda, fatta di violenze, stereotipi, gap salariali, pensando che basti per mettere ordine al problema che è molto più strutturato, sistemico, radicale.

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Classe 1990, Pescarese di adozione. Attivista transfemminista e co-fondatrice del Collettivo Zona Fucsia, si occupa da sempre di divulgazione femminista. È speaker radiofonica e autrice in Radio Città Pescara del circuito di Radio Popolare con il suo talk sulla politica e attualità "Stand Up! Voci di resistenza". Collabora nella Redazione Abruzzo di Pressenza. È infine libraia presso la libreria indipendente Primo Moroni di Pescara e operatrice socio-culturale di Arci.

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