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Nel 2020 si mette ancora “in croce” una donna per aver abortito.

- 04/10/2020


Il 28 Settembre una donna ha raccontato tramite un post di facebook un fatto scioccate: sette mesi dopo aver subìto un aborto terapeutico ha scoperto che il feto era stato seppellito al cimitero Flaminio senza alcun consenso da parte sua.

Non solo, era stato sepolto con una croce, e sulla croce era stato scritto il nome della donna. Molteplici sono quindi le violazioni che la protagonista di questa storia ha subito, portando la notizia a diventare internazionale e a puntare il riflettore su una questione ombrosa circa l’IVG e la legge 194 in Italia.

Il corpo delle donne è sempre stato un campo minato in cui si sono svolte svariate battaglie politiche, dove molto spesso la donna stessa non veniva interpellata. Una di queste è proprio la decisione di interrompere o meno una gravidanza indesiderata, di cui c’è ancora tanto da lavorare.

La 194 è una legge purtroppo monca, che tutela e permette al medico di opporsi alla pratica tramite l’obiezione di coscienza, portando quindi non poche complicazioni nel praticare una IVG.

Ma non è l’unica: in Italia si è permesso alle associazioni cattoliche di entrare negli ospedali e dettare la morale sulle dinamiche della procedura. O comunque, anche se non direttamente, secondo tantissime (troppe) testimonianze di donne che hanno abortito, la Chiesa ha un influenza troppo invasiva negli ambienti ospedalieri.

Basti pensare agli episodi in cui infermieri e medici tentano di dissuadere la donna a rinunciare alla pratica chirurgica, facendola sentire in colpa (sentimento molto cristiano!) o che addirittura si oppongono perché c’è la convinzione che un “prodotto di concepimento” sia un vero e proprio bambino.

Un esempio di predominanza della chiesa è proprio quello che è successo alla ragazza che ha denunciato l’accaduto il 28 Settembre tramite i social: nonostante delle regole ferree nelle pratiche di sepoltura (legge risalente al 1990), sono troppe le organizzazioni religiose che non solo si occupano di far cambiare idea alle donne in procinto di abortire, tramite tecniche persuasive che rasentano la violenza psicologica, ma che si sentono in dovere di prendere il “prodotto del concepimento” o il feto ( a seconda della settimana di gravidanza interrotta) e di farne una cerimonia funebre religiosa, anche senza il consenso della donna direttamente interessata.

La legge in questione è la 285 del 1990, il “Regolamento nazionale di polizia mortuaria”. Il testo, infatti, prevede che – nel caso in cui una donna non desideri farlo personalmente – il Comune si debba occupare della sepoltura del feto, in forma rigorosamente anonima. Al contrario, se si tratta ancora di resti abortivi, quindi sotto le 20 settimane di vita, è la stessa Azienda sanitaria a provvedere all’incenerimento. Parentesi: l’anonimato è fondamentale; l’articolo 21 della legge 194 prevede che chiunque riveli il nome della donna che abortisce è passibile di denuncia ai sensi dell’articolo 622 del codice penale. Ora: il problema è l’articolo 7 della 285, in cui c’è scritto che la donna o “chi per essa” può seppellire il feto entro 24 ore dalla sua estrazione. Molte associazioni cattoliche, infatti, si pongono proprio “al posto della donna”, spesso fornendo dei pareri legali. Ciò è gravissimo, perché è chiaro che la legge non si riferisce a loro, ma ai parenti o a chi ne fa le veci.

Il vero problema, qui in Italia, è la predominanza della religione in ambienti in cui la laicità è la base per un lavoro ben svolto, come appunto gli ospedali, senza parlare anche delle scuole ed altre istituzioni.

Non ho intenzione di ripetere ciò che le mie compagne attiviste femministe hanno già detto (tra cui Jennifer Guerra che ha mappato i cimiteri dei feti o comunque luoghi di commemorazione dei prodotti del concepimento senza il consenso di chi ha effettuato una IVG, tra cui anche la foresta dei bambini mai nati di Pescara). Ma una cosa è certa: in Italia c’è ancora molto da lavorare e non solo in ambito legislativo (vietare l’obiezione di coscienza negli ospedali è infatti una delle battaglie del movimento femminista!) ma anche a livello culturale.

Di fronte all’IVG ci sono due reazioni, che a mio avviso vanno riviste entrambe per una vera e propria autodeterminazione della donna: la prima è la non accettazione totale, che ha portato l’obiezione di coscienza e alle associazioni religiose (come appunto Amici della Vita di Maria e company) di imporre un rito religioso ad un feto senza il consenso della donna che ha praticato l’aborto (del tipo: “se non è la madre a pensare al figlio, ci pensiamo noi“. Una violenza inaudita!).

La seconda, che è più sottile, è il far sentire in colpa la donna a tutti i costi o comunque di vittimizzarla. Atteggiamento che hanno anche le donne che non impediscono una IVG o che addirittura supportano e lottano per la 194, ma che pensano che interrompere una gravidanza sia per tutte le donne un evento tragico e segnante. Per molte donne praticare un aborto è un sollievo ed una liberazione, proprio perché decise nel non portare avanti la gravidanza.

E nessuno può giudicare il sentire di una donna, ne tanto meno “invisibilizzare” quel sentire che forse darà un po’ fastidio ad alcun*, ma esiste.

L’altro giorno quella donna ha scoperto che il suo nome è stato messo su una croce dove hanno sepolto il suo feto ed è un fatto gravissimo (anche gli antiabortisti si sono dissociati da tale scandalo).

Ma ogni giorno tutte le donne vengono “messe in croce” quando praticano una IVG. Vengono crocifisse dai medici obiettori, dalle associazioni cattoliche, dalla burocrazia, dalla società patriarcale che impedisce la libera scelta dei nostri corpi.

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Classe 1990, Pescarese di adozione. Attivista transfemminista e co-fondatrice del Collettivo Zona Fucsia, si occupa da sempre di divulgazione femminista. È speaker radiofonica e autrice in Radio Città Pescara del circuito di Radio Popolare con il suo talk sulla politica e attualità "Stand Up! Voci di resistenza". Collabora nella Redazione Abruzzo di Pressenza. È infine libraia presso la libreria indipendente Primo Moroni di Pescara e operatrice socio-culturale di Arci.

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